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giovedì 30 dicembre 2010

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(...)
Non sono mai stato un soldato, ho solo sempre portato l'uniforme. Cosa ne ho ricavato? Cosa ne hanno ricavato gli altri, che non si sono rivoltati, che non avevano paura? Sì, cosa ne abbiamo ricavato? Noi, le comparse della stupidità personificata? Cosa ne ricaviamo dalla morte eroica? Ho impersonato la morte sulla scena una cinquantina di volte, ma era solo teatro, e voi sedevate sulle sedie di velluto, lì davanti, e la mia interpretazione della morte vi sembrava sapiente e fedele.
(...)
La morte doveva sempre essere eroica, entusiasmante, trascinatrice, per un fine grande, e convincente. In realtà, qui, cos'è? Un crepare, un morire di fame, di gelo, nient'altro che un fatto biologico, come il mangiare e il bere. Cadono come mosche e nessuno pensa a loro, nessuno li seppellisce. Giacciono dappertutto qui attorno senza braccia, senza gambe, senz'occhi, coi ventri squarciati.
(...)

Ultime lettere da Stalingrado
Gli struzzi, 18 - Einaudi

lunedì 20 dicembre 2010

Le stelle


... La mia vita non è per nulla mutata: come da dieci anni, è benedetta dalle stelle ed evitata dagli uomini.
Non ho mai avuto amici, e tu sai perché essi non abbiano mai voluto aver a che fare con me. Ero lieto, quando sedevo davanti al telescopio ed osservavo il cielo ed il mondo delle stelle, lieto e felice come un bambino, cui sia dato di giocare con le stelle.
(...)

Monica, cos'è la vita nostra in confronto ai milioni di anni dei cieli stellati? Sopra il mio capo stanno, in questa bella notte, Andromeda e Pegaso. Le ho guardate a lungo, presto sarò loro molto vicino. La mia contentezza ed il mio equilibrio li debbo alle stelle, e tra di esse tu sei per me la più bella. Le stelle sono immortali e la vita dell'uomo è come un granello di polvere nel tutto.
(...)

Avrei avuto caro di contare le stelle per un paio di decenni ancora, ma di questo, ormai, non ne sarà più nulla.

ULTIME LETTERE DA STALINGRADO
Gli struzzi, 18 EINAUDI

sabato 18 dicembre 2010

Rompere gli schemi


(...)

Quest’anno, come sicuramente sapete, - dopo l’euforia della Coppa del Mondo - é stato un anno di elezioni per tutto il Brasile. Una legge di proposta popolare (qualche milione di firme raccolte) ha cercato di fermare i politici corrotti attraverso l’impugnazione delle loro candidature. Qualcosa di nuovo sta succedendo. Infatti se per qualsisi impiego pubblico si chiede la “fedina penale” pulita, perché i governanti e i parlamentari possono avere alle spalle processi per corruzione, traffico di droga, pedofilia, ecc.?

É giusto che gli elettori conoscano la vita anteriore di chi chiede di essere votato, come si é arricchito, che cosa ha fatto di bene o di male. Di fatto alla fine, comunque, é stato il voto che ha definito quelli che saranno i nuovi governanti e legislatori.
Nel nostro caso, nello Stato dell’Amapá é successo il finimondo. A pochi giorni dalle elezioni la Polizia Federale ha arrestato um buon gruppo di persone del governo statale. Secondo le accuse, hanno rubato milioni! Era tutto super organizzato. I deputati dello Stato approvavano tutto, il Tribunale dei Conti pure e cosí dividevano la torta.

Finalmente la gente ha capito: ecco perché gli ospedali non funzionano, le scuole cadono a pezzi, le opere in costruzione non finiscono mai o si rompono prima di essere inaugurate. Oggi l’amministrazione dello Stato é un caos e in piú con le casse vuote. Lo Stato é pieno di debiti che non paga, compresi gli affitti di alcune scuole di proprietá della Diocesi. É una vergogna. Purtroppo l’Amapá é diventato famoso per questo.
Speriamo che al piú presto sia conosciuto anche per qualche altra cosa migliore e soprattutto piú onesta. Risultato: la maggior parte dei candidati coinvolti nello scandalo non sono stati eletti e il nuovo Governatore, a partire da gennaio, sará próprio quello che era l’ultimo nella lista delle preferenze pre-elettorali. La frittata, diremmo noi, si é girata... Speriamo per il meglio, ovviamente.

(...)

Tratto dalla Lettera di Natale 2010 scritta da Mons. Pedro José Conti (www.dompedro.it)

sabato 4 dicembre 2010

Gita GMB 2010


Anche quest'anno si è tenuta la gita dei GMB (Giovani Marmotte Bresciane alias Gruppo Manguste Bastarde). Per chi fosse interessato, è possibile dare un'occhiata ad alcune foto scattate per l'occasione premendo sul seguente collegamento: http://picasaweb.google.com/Romano.Scuri/GitaGMB2010#.

L'amico Roberto, che evidentemente ha apprezzato uno dei miei scatti, pendenti come la torre di Pisa, si è preso la briga di effettuare qualche ritocco correttivo. Il risultato è stato decisamente buono e quindi ho dato a questa immagine l'onore di comparire in testa a questo breve post.

sabato 13 novembre 2010

Al titolo ci penso dopo


Quando ieri ho pubblicato quel breve post sull'SMS, avrei voluto in realtà dilungarmi in un discorso più ampio, ma non ce l'ho fatta e l'ho lasciato andare così. Sarà stata forse la stanchezza per il lavoro di questa settimana che mi ha visto affrontare qualche problema in più del solito o forse il clima familiare da cui non volevo distogliermi troppo e quindi alcune riflessioni sono rimaste ingarbugliate nella mia testa.

Ora, destatomi dal riposino pomeridiano a cui, come aspirante anziano, non riesco ormai a sottrarmi nel fine settimana, sento l'urgenza di aprire il portatile nel tentativo di far fluire con ordine tutte quelle parole che si accalcano all'uscita come una folla impaurita che rischia di farsi male passando per un varco stretto.

Scrivevo che la Natura tenta di fuggire il freddo e la morte ed è così anche per gli uomini. Abbiamo escogitato mille modi per riscaldarci e tenerci al riparo e siamo capaci di garantirci un clima confortevole senza la necessità di migrare altrove. Ma la morte no, quella non possiamo tenerla lontana per sempre. Con qualche abilità riusciamo a rimandarne un po' l'appuntamento, ma alla fine ci tocca battere presenza.

Sembrava andare tutto bene, tanti progetti per l'immediato e qualche sogno per l'avvenire. Ci si arrabatta con le difficoltà di ogni giorno, ci si arrabbia per una sciocchezza. Altre volte invece il nostro risentimento è più meritato perché l'ingiustizia subita è più grande, perché il torto pare insanabile. Eppure ogni giorno riesce comunque a strapparci un sorriso. Sì, la vita è bella e ricca di cose piacevoli e quelle meno belle riescono ugualmente a stimolarci e farci tirare fuori il meglio di noi.

E così all'improvviso, tra capo e collo, può capitare di essere travolti da qualcosa che al momento ci appare devastante. Qualche mal di testa, un po' di vertigini, difficoltà ad esprimersi e la necessità di essere accompagnati. Poi la diagnosi e l'intervento d'urgenza per un glioma. La speranza di vita non va oltre i due anni di vita. La diagnosi è una condanna certa: lenta ma inesorabile.

Sì, lo so. Tutti dobbiamo morire. Chi ancora prima di nascere, altri proprio nel venire alla luce. Altri ancora dopo poche settimane. Alcuni muovendo i primi passi oppure mentre facevano le prime corse per uscire da scuola. Alcuni nel fiore dell'adolescenza. Altri a pochi mesi dal matrimonio. Alcuni sfortunati solo pochi mesi dopo il matrimonio. Altri senza avere visto un figlio, altri con un figlio in arrivo, altri ancora con un figlio piccolo da crescere. Molti senza la gioia di un nipote, molti dopo aver tenuto in braccio figli dei propri figli. Alcuni dopo aver fatto una lunga strada ed essere ormai desiderosi di fermarsi.

Ma se non siamo disperati, non bramiamo di morire. Sarà pure una valle di lacrime, ma ci stiamo bene lo stesso e quel treno non lo vogliamo prendere, non siamo ansiosi per niente di salirci.

Qualche volta mi domando se non c'era un altro modo. Riesco a capire che è giusto dare il saluto, specialmente quando il viaggio è stato lungo e faticoso e si è vissuto con intensità piuttosto che lasciarsi andare quotidianamente alla deriva. Le cose buone che, nostro malgrado, siamo riusciti a fare, resteranno ed insegneranno anche ad altri a fare altrettanto. In qualche modo continueremo ad esserci, nel pensiero di un figlio, nel ricordo di un fratello, nel sospiro di un padre o di una madre.

Se lo scopo è quello di vivere il più a lungo possibile, fortunati allora quelli che raggiungono la soglia degli ottant'anni e la superano. Quelli che corrono, sia pure con passi lenti e malfermi, oltre i novanta; i più resistenti fin al di là dei cent'anni. No, non è così. l'obiettivo non è restare in vita ed accumulare il mucchio più grande di primavere.

Se il chicco non muore, non può portare frutto. Non c'è amore più grande di chi offre la propria vita per i propri amici. Come ho fatto io, così fate anche voi. Non sono venuto per essere servito, ma per servire. Chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia la ritroverà. Tante risposte che noi cerchiamo, e che nessuno ormai sembra capace di darci, le possiamo trovare nel Vangelo.

Per tanti ormai sono una bella favola sorpassata. Per altri una storia mai conosciuta fino in fondo. Per altri ancora un annuncio mai ascoltato. Nessuno ha mai visto Dio. Gesù ci ha detto: chi vede me vede il Padre perché io sono in lui e lui in me e assieme formiamo una cosa sola.

Se le cose stanno così, lo scopo della vita è già tracciato: amare Dio più di tutto ed amarci gli uni gli altri come noi stessi. E allora, se il fine è l'amore, non sarà tanto importante quanto abbiamo vissuto, ma quanto siamo stati capaci di amare e la morte allora non potrà più farci paura.

venerdì 12 novembre 2010

SMS



"Nebbia in lontananza e la natura pigramente sen va a dormire per fuggire il freddo e la morte. Ma gli uomini hanno inventato il Natale per riscaldare i cuori".

Stamane ho scritto questo breve SMS a Maria Luisa, subito dopo aver spalancato le finestre per dare aria alle stanze. Un po' di ossigeno in più aiuta la mente ad aprirsi con maggiore facilità ai nuovi pensieri della giornata.

Mia moglie, da Cremona, mi ha prontamente risposto con un messaggio di approvazione a cui ho subito ribattuto dicendo che in realtà è lei la mia musa ispiratrice.

In seguito ho pensato che poteva essere un'idea carina pubblicarlo sul blog, magari accompagnato da una fotografia estemporanea che ho immediatamente scattato uscendo sul balcone e dirigendo l'obiettivo verso l'alba.

Non ho l'abitudine di conservare gli SMS che scrivo. Al massimo riesco a salvarne alcuni di quelli ricevuti dagli altri. Ho cercato allora di memorizzare con precisione quello che avevo repentinamente digitato sulla tastiera del telefonino, per riuscire a trascriverlo su un foglietto, come qualcuno fa con i sogni della notte che al risveglio svaniscono velocemente e se non li fissa su carta, poi non riesce più a raccontarli.

Più tardi, mentre accompagnavo Alessandra a Scuola, non ho resistito alla tentazione di raccontare anche a lei e ad Andrea quello che avevo scritto a Maria Luisa. Al termine della declamazione, mia figlia ha detto: "mica diventerai un poeta, che poi mi tocca studiarti a scuola". Per così poco? No, non c'è pericolo.

sabato 23 ottobre 2010

Niente da dire

Mi piacerebbe essere più presente su queste pagine, ma, se non si ha nulla d'importante da dire, si può anche restare in silenzio.

Alessandra mi chiama nella sua stanza, mentre sto dando un'occhiata distratta al notiziario su televideo. Mi dice che intende partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Madrid il prossimo agosto 2011. Per quella data sarà maggiorenne e mi sembra un tantino fuori luogo negarle il consenso alla preiscrizione da perfezionare entro la fine di questo mese. Comunque mi fa piacere che me lo abbia chiesto e quasi provocatoriamente le dico che fra qualche mese non sarà più tenuta a domandarmi il permesso per nulla. Risponde che non sarà così e che continuerà a mettermi al corrente di ogni suo progetto o iniziativa. Annuisco, ma dentro di me so benissimo che il brivido dei 18 anni fa venire a tutti, soprattutto ai maschietti, una specie di delirio di onnipotenza. Poi dopo qualche mese passa e tutto riprende come prima.

Torno in salotto e riesco a vedere, questa volta un po' meno distrattamente, un nuovo spot che avevo scambiato per l'ennesima pubblicità della Audi. Ma quel logo non è in realtà composto da quattro cerchi bensì dall'affiancamento di due simboli d'infinito.

Ed apprendo così che si sta organizzando a Milano dall'8 al 10 novembre 2010, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica, la Conferenza Nazionale della Famiglia. Questa notizia è troppo importante per non darle il risalto come merita. Se interessati, potete dare un'occhiata qui: http://www.conferenzafamiglia.it.


La Conferenza Nazionale della Famiglia è una grande occasione di incontro tra le amministrazioni pubbliche centrali, regionali e locali, le associazioni, il privato sociale, le imprese, le organizzazioni dei lavoratori e tutte le realtà interessate alle tematiche familiari.

La famiglia resta infatti, per comune percezione nel Paese, la fondamentale istituzione della società e richiede, specialmente in questo momento di pronunciata crisi economica e sociale, la pianificazione di interventi adeguati e meditati, che ne sostengano la funzione e ne promuovano il ruolo.

L'evento, organizzato dal competente Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, unitamente all'Osservatorio nazionale sulla famiglia e al relativo Comitato Tecnico Scientifico, che ne coadiuvano l'azione, si svolge al massimo livello istituzionale, come momento di confronto e di riflessione, nella prospettiva di delineare gli obiettivi e gli strumenti delle più efficaci politiche per la famiglia.

Si intende realizzare, in tal modo, un'ampia consultazione tra le forze coinvolte, finalizzata ad arricchire il lavoro di formulazione del Piano Nazionale delle politiche per la famiglia, che il Governo ha intenzione di emanare nei primi mesi del 2011.

mercoledì 8 settembre 2010

Per tutta la vita


Nel tardo pomeriggio di ieri ho mandato una e-mail al mio capo dicendogli che oggi avrei preso una giornata di permesso per festeggiare il nostro terzo anniversario di matrimonio. Mi ha risposto facendomi gli auguri e dicendo che me lo meritavo e che il giorno di ferie non mi sarebbe stato addebitato. Mi ha piacevolmente stupito.

In serata sono sceso a Cremona da Maria Luisa. Sarebbe venuta su lei a Brescia perché in questi giorni ho sofferto un po' a causa di un attacco di labirintite. Ma visto che avevo guidato senza problemi andando e tornando dall'ufficio, ho preferito muovermi io per lasciare la consorte tranquilla e poter seguire il progetto originale che ci voleva oggi in visita a Piacenza.

Ieri sera ce ne saremmo andati anche al cinema, ma dato che nella sala a noi vicina non proiettavano nulla che ci piacesse particolarmente, siamo rimasti in casa a perdere tempo al computer. Come prima cosa ho effettuato una stampa on-line delle fotografie che avevo fatto a mio padre ed al grosso porcino che aveva trovato in montagna nei giorni scorsi. Poi non ho resistito alla tentazione di far stampare sopra una tazza una foto anche per l'amico Lorenzo. Entrambi si vedranno recapitare a casa nei prossimi giorni questo piccolo pensiero e spero che la sorpresa sia una cosa loro gradita.

Girovagando ancora un poco su internet, più che altro per vedere su facebook cosa hanno pubblicato i miei figli - non per controllarli, ma per pura curiosità - l'ora s'è fatta veramente tarda, al punto da rimpiangere le ridotte ore di sonno a disposizione.

Era nostro desiderio, infatti, di alzarci oggi con una certa solerzia per partecipare alla Messa nella chiesa di S. Agostino dove tre anni fa ci siamo uniti in matrimonio. La giornata, meteorologicamente parlando, non era delle migliori, ma rispondendo ai vari SMS di auguri che nel frattempo arrivavano, dicevamo che era stato decisamente meglio che lo fosse stato l' 8 settembre 2007.

Dopo esserci attardati ancora qualche momento gironzolando per le bancarelle del mercato che si tiene ogni mercoledì mattina in centro a Cremona, finalmente siamo saliti in auto in direzione di Piacenza. Sinceramente affrontavo questo viaggio di pochi chilometri con ridotto entusiasmo al pensiero di dovermi muovere per le vie di una città, per me sconosciuta, con un ombrello in mano per non bagnarmi troppo.

Ed invece, lasciata da poco la città natale di Maria Luisa, scorgiamo qualche sprazzo d'azzurro proprio nella direzione in cui ci stiamo muovendo. La strada da percorrere era veramente poca e non mi andava d'infilarmi in autostrada. Procedevo a velocità sicuramente riguardosa di ogni limite comunale imposto alla circolazione. Nel contempo tenevo d'occhio lo specchietto retrovisore per non causare code e rischiare d'irritare chi non era in giro come noi per buontempo ed aveva più fretta di arrivare a destinazione.

Giunti nei pressi del centro, abbiamo lasciato l'auto parcheggiata in una delle prime piazzole a pagamento da noi scorte. Non ci dispiace di fare lunghe camminate a piedi e di soddisfare così in parte i consigli di maggior movimento che i nostri medici fanno ad entrambi. Con una certa curiosità abbiamo adocchiato dall'esterno il macello bovino, ora rimodernato e restituito alla città, che ne ha fatto sede di un museo e di una facoltà universitaria. Pensando agli studenti che la frequentano la cosa mi ha fatto un tantino sorridere. In un certo qual modo l'originaria attività rischia di proseguire, anche se ora solo in maniera figurata.

Convergendo verso il duomo, ci siamo imbattuti in alcuni edifici fatiscenti resi ancor più decadenti per la sporcizia e l'abbandono di scatole e scatoloni che il mercato in disarmo aveva lasciato sulle strade. Con questo tempo non devono aver combinato grandi affari. Meglio quindi rimettere tutta la merce nel furgone e tornarsene a casa: sarà per un'altra volta.

Visitare la città in realtà era per noi soltanto una scusa per star fuori a pranzo e festeggiare possibilmente con un buon pasto. Ammetto che c'è voluta un po' di fatica per individuare un ristorantino che facesse al caso nostro, ma ne è valsa la pena. Ci siamo saziati in abbondanza e con piacere. Quando siamo usciti per sgranchire nuovamente le gambe ed aiutare la digestione, abbiamo avuto modo di constatare che il tempo incerto stava volgendo decisamente al meglio, permettendoci di completare il giro del centro senza dover tenere aperto l'ombrello e di sentirlo quasi d'impiccio fra uno scatto fotografico e l'altro.

Ed ora eccoci qua di nuovo a casa. "Dove andare a star più male di casa propria?" Così sentenziava spesso mia madre. Tre anni fa, dopo il pranzo nuziale, siamo andati a farle visita al ricovero dove era ospite. Non credo che abbia capito molto bene chi erano quei due in abito elegante che venivano a trovarla. Il nostro applauso però lo abbiamo ricevuto lo stesso da tutti gli altri anziani che sedevano a tavola e coralmente, battendo le mani, dicevano: "Viva gli sposi".

Cara mamma Celina, caro papà Dario. Noi siamo qua e ce la stiamo mettendo tutta, ma possiamo dire che non è difficile volerci bene. Anzi, con il vostro aiuto di lassù, è facile.

sabato 21 agosto 2010

Troppa montagna può far male


Anche quest'anno abbiamo trascorso le nostre ferie in montagna per compiacere Alessandra che ama fare camminate impegnative alla conquista di qualche vetta. In verità il tempo non è stato molto favorevole e quindi l'unica escursione di rilievo è stata quella che ci ha portato sui Denti di Terra rossa. E' superfluo sottolineare che mia figlia è stata la prima a tagliare il traguardo a quota 2490 metri. Di poco distaccato è arrivato poi suo padre, soprattutto perché continuava ad attardarsi, prodigandosi in copiosi scatti fotografici con la fedele compatta che porta sempre al seguito.

Terminato il periodo di vacanza a Siusi, ci siamo mossi verso Canazei per trascorrere là, nel cuore delle Dolomiti, i restanti giorni di villeggiatura. E' stato bello scoprire che l'albergo prenotato da Maria Luisa era proprio nelle adiacenze di quello da me frequentato ormai diciotto anni prima in occasione della mia prima visita a questi luoghi. Alessandra era soltanto un desiderio, mentre invece Andrea già sgambettava vivacemente in quella gita di pochi giorni in cui ci eravamo portati appresso anche i nonni Luigi e Celina, che erano soliti frequentatori di quei posti assieme al fratello di mia madre.

In una di quelle serate avevamo fatto visita al palazzo del ghiaccio che non si trovava molto distante dal nostro alloggiamento. In tale occasione non avevo però voluto indossare i pattini e mi ero limitato ad osservare le altre persone più ardimentose che erano scese in pista a sfidare le proprie capacità.

Quest'anno invece, complice anche il desiderio di mia figlia, non mi sono trattenuto e nel dopocena ci siamo recati con malcelato entusiasmo all'impianto sportivo per scivolare in allegria. Da ragazzo avevo già usato i pattini a rotelle ed in virtù di quello, in ben due occasioni durante le gite invernali con la parrocchia, avevo avuto modo di esibirmi con discreta disinvoltura anche sul ghiaccio. Ora, prima di scendere in pista, fantasticavo tra me e me al ricordo di quelle esperienze giovanili ed immaginavo pure di compiere qualche evoluzione ardita degna di un pattinatore esperto.

Mirabile fantasia! Appena entrato in pista mi sono reso conto di restare in equilibrio a fatica. Avevo il desiderio di uscire mestamente con la coda fra le gambe. Alessandra, invece, mostrava una sicurezza ed una confidenza per me insolite, pur essendo anche lei, come me, alla sua terza esperienza in quest'attività ludico-sportiva. Eravamo stati i primi a scendere in pista. Dopo alcuni minuti si sono aggiunti anche un paio di ragazzini, a mio giudizio frequentanti la scuola elementare, che dimostravano di avere una confidenza ed un'abilità nel muoversi tale da farmi credere che stessero correndo avanti ed indietro su un verde prato anziché su uno specchio d'acqua ghiacciata.

Però non volevo demordere, nonostante le mie prime morbide cadute ed i primi involontari cambi di direzione dovuti al non pieno governamento delle lame sulla superficie ghiacciata. Insistendo un po', forse sarebbe arrivata anche l'eleganza nel movimento, almeno lo speravo. Intanto Maria Luisa dagli spalti provava ad immortalare con la macchina fotografica le nostre evoluzioni.

Ad un certo punto non ricordo più nulla. Ho soltanto una visione confusa di due enormi pozze di sangue mentre mi sto risollevando a fatica sul ghiaccio. Alessandra mi racconterà poi di aver sentito un tonfo sordo e di essersi girata verso di me e di avermi visto steso a terra. Dato che non mi rialzavo, si era prontamente avvicinata e mi aveva ripetutamente invitato a farlo, ma io non rispondevo e continuavo a restare con il capo rivolto alla superficie gelata e con le braccia completamente allungate lungo il fianco.

Dopo alcuni attimi di vero smarrimento, sia per lei che continuamente mi parlava senza ottenere risposta, sia per mia moglie che assisteva impotente dal bordo della pista, lentamente cominciavo a ritornare in me. Una delle prime frasi da me pronunciate, quasi ridendo, dev'essere stata quella relativa al fatto che non ci si poteva fare così male per una semplice pattinata. Intanto, mentre ancora ero in uno stato di confusione generale, sono arrivati i soccorsi chiamati prontamente dal personale dell'impianto sportivo.

Mentre salivo sull'ambulanza pensavo a rincuorare Alessandra che sarebbe dovuta restare in albergo da sola; invece Maria Luisa sarebbe venuta con me al posto di guardia medica per le prime cure. Velocemente siamo scesi a Pozza di Fassa dove sono stato accolto, in quel sabato sera, da vario personale medico. Un dottore di colore mi ha anestetizzato ed applicato alcuni punti di sutura per lo squarcio che mi ero fatto in fronte e vicino all'occhio, cadendo sopra gli occhiali. Questi ultimi si erano soltanto stortati un po': la montatura in titanio è stata veramente robusta, quanto ci si aspetterebbe da questo materiale. Come sarebbe stato il resto della vacanza senza le lenti di scorta al seguito?

Dopo la prima medicazione, sono stato trasferito all'ospedale di Cavalese perché dovevo essere sottoposto ad una TAC di controllo l'indomani mattina. Pensavo a mia figlia sola in albergo, lontana dal suo unico genitore. Dopo essere arrivato all'ospedale ed aver completato con il medico di turno i primi test sulla prontezza dei miei riflessi, mi son fatto passare il cellulare da mia moglie per confortare Alessandra. Era da poco passata la mezzanotte. Forse dormiva. Probabilmente no. Se mi avesse sentito al telefono, si sarebbe tranquillizzata ed avrebbe potuto riposare più serenamente, come infatti mi ha confidato in seguito.

Maria Luisa mi è stata sempre a fianco, cercando di dormire un po' su una poltrona che il reparto le ha messo a disposizione. Anch'io sono riuscito un po' ad assopirmi pensando di tanto in tanto all'altro figlio che stava rientrando in treno dal mare, dopo una breve vacanza trascorsa con la fidanzata ed alcuni amici.

Ero compagno di stanza di un giovane ventisettenne che si era fratturato una gamba finendo con la moto contro un paracarro. Sentendo che me ne volevo andare al più presto per riunirci alla figlia lasciata sola in albergo, m'invitava a non avere fretta per non dover magari rientrare poi per un nuovo guaio alla testa. Diceva: "La vita è lunga ed un giorno in più in ospedale non cambia niente". Io invece sto consolidando sempre più l'impressione che la vita sia breve e che il tempo fugga via inesorabile.

Per nostra fortuna, pur essendo domenica, in tarda mattinata mi hanno condotto a fare la TAC di controllo che è risultata completamente negativa. Si trattava di attendere ancora fino alle ore sedici del pomeriggio, quando finalmente mi avrebbero dimesso. Quando siamo rientrati nella stanza d'albergo da cui Alessandra si era mossa soltanto per la colazione del mattino, saltando il pranzo, m'è parso di vedere svanire in lei tutta la tensione accumulata.

Il resto della vacanza è trascorso in tono minore sia per la condizione di riposo a cui dovevo sottostare, sia, soprattutto, per le non troppo favorevoli condizioni meteorologiche che ci hanno riservato numerosi giorni di pioggia. Su http://picasaweb.google.it/romano.scuri ho pubblicato alcune fotografie fra le quasi mille prese a ricordo indelebile di quei giorni.



giovedì 8 luglio 2010

C'era una volta in Australia

Oggi sono uscito a pranzo con Lorenzo, Fabio e due loro colleghe di lavoro. Mi sono dimenticato di ordinare un caffè decaffeinato e così ora fatico un po' a prendere sonno. Invece di continuare a rigirarmi inutilmente nel letto in questa calda serata estiva, è meglio che mi metta al PC e scriva qualcosa che mi sta a cuore.

Domenica scorsa è venuto a mangiare da noi nonno Luigi e gli ho preparato una bella grigliata di carne. Ultimamente tende a mangiare meno anche lui, ma, nonostante questa salutare inclinazione a non appesantirsi troppo, sono riuscito ad infilargli nel piatto qualche porzione più abbondante di quello che avrebbe voluto. L'affetto passa anche attraverso il cibo e, servendo quantità più generose ai miei congiunti, mi sembra di manifestare meglio il mio amore per loro.

Dopo aver rigovernato, visto che papà aveva ancora voglia di chiacchierare, ci siamo accomodati in salotto. Non era il caso di uscire per strada in quelle assolate prime ore pomeridiane. Il condizionatore andava a tutto spiano ed evitava che risentissimo troppo della calura, indubbiamente sopra la media del periodo.

Per mio padre è sempre stato facile tornare col pensiero agli anni di lavoro passati in Australia e ricordare questo o quell'episodio che, anche se narrato per l'ennesima volta, non suscita mai noia o disapprovazione. Posso capire come questa grossa fetta di vita da lui trascorsa lontano dalla patria e dalla famiglia, sia pure in compagnia di tanti amici compaesani, lo abbia segnato dentro a tal punto che gli anni successivi al suo ritorno sono stati per lui occasione a più riprese di un continuo raccontare senza soluzione di continuità. Otto anni trascorsi al di là dell'oceano, quando era nel pieno del vigore giovanile, devono essere stati densi di soddisfazione per il miglioramento economico che ne traeva, ma anche di sacrificio per il duro lavoro nelle piantagioni di banane ed ortaggi vari, lontano dai genitori e soprattutto senza una moglie accanto.

Ma lui aveva sempre detto che era fermamente convinto di voler ritornare a casa e per questo motivo non si era mai fatto una famiglia sua laggiù. Era sicuro che, frequentando una donna del posto, in seguito l'avrebbe sposata e presumibilmente avrebbe avuto dei figli e con essi avrebbe messo definitivamente radice in quella terra che, sia pur amica ed ospitale, non sentiva come la sua destinazione definitiva.

A un certo punto del suo racconto, che procedeva più per associazione d'idee che in maniera sistematica, ho voluto chiedergli come avesse fatto a capire che era giunto il momento di tornare. Mi disse che il tempo propizio si era manifestato all'incirca otto mesi dopo che il suo socio in affari si era sposato. Da quel momento, pur continuando a lavorare insieme e condividere spesso con immutata fraterna amicizia i pasti che la moglie dell'amico preparava per entrambi, con franchezza papà disse loro che presto essi avrebbero avuto dei figli ed era giusto che lui si facesse da parte e concretizzasse così il suo proposito di rientrare.

Gli chiesi se nell'approssimarsi della data della partenza avesse provato sentimenti di nostalgia e dispiacere di lasciare la vasta comunità di amici italiani, tutti immigrati come lui. "Niente affatto", mi rispose, ed aggiunse che fu colto da entusiasmo tale da non veder l'ora di arrivare. Ma la nave che partiva da Sidney sul finire dell'anno 1960 ci mise quasi un mese prima di giungere a destinazione. Si era imbarcato da solo, però a bordo aveva fatto amicizia con alcuni tagliatori di canna friulani, che in meno anni di lui avevano accantonato una discreta fortuna ed ora tornavano anch'essi alla loro terra d'origine.

Ricordo ancora l'espressione del suo volto felice attorniato da questi amici in alcune fotografie scattate ad Hong Kong o altri porti dell'Asia durante le varie tappe intermedie del lungo viaggio di rientro. Papà mi disse poi che in uno di questi scali, forse in India, aveva avuto modo di scrivere una cartolina ai genitori per far sapere in anticipo la data presunta del suo arrivo. Giunto però nei pressi del Mar Rosso cominciò a soffrire per un terribile mal di denti. Non vedeva l'ora di scendere a terra per sottoporsi alle cure di un dentista.

Attraccato a Napoli, visto che la nave avrebbe sostato per diverse ore, si fece portare con un taxi dal più vicino odontoiatra. Dopo un lungo girovagare per le vie della città arrivò a destinazione. L'autista gli chiese se avrebbe dovuto aspettarlo per il ritorno. Ma mio padre, vedendo dall'alto che il luogo in cui si trovava non distava più di trecento metri dal porto, rifiutò con decisione l'offerta, dicendo che sarebbe tornato a piedi.

Pensò che ormai era pieno inverno e al suo paese avrebbe patito molto freddo. Pertanto acquistò per diciottomila lire un ottimo cappotto, che poi nei mesi successivi gli fu chiesto in prestito dal cugino per ben figurare al matrimonio di un parente.

Il viaggio via mare si concluse a Genova. Uno degli amici conosciuti sulla nave tornava in Svezia con lo stesso mezzo. Mio padre e i friulani proseguirono invece in treno. Inizialmente temettero di non riuscire a partire in giornata perché al valico aveva nevicato abbondantemente e forse la corsa sarebbe stata soppressa oppure ritardata. Dopo un po' d'attesa ricevettero l'annuncio che il convoglio si sarebbe mosso ed i trenta centimetri di neve che incontrarono poi lungo il tragitto non crearono problema alcuno.

Giunti a Milano, cambiarono in direzione di Brescia, dove mio padre scese congedandosi dagli altri e consigliandoli di investire i guadagni in qualche attività produttiva. Ma essi gli risposero che sarebbero tornati a pascolare le capre come un tempo. Papà usci dalla stazione che erano ormai le nove di sera. Riuscì a trovare un taxi che lo portò subito fin su in montagna al paese natio. Pensò che avrebbe potuto fermarsi in città e dormire presso alcuni parenti, ma aveva troppa smania di giungere a casa ancora il giorno stesso. Quindi si mise nuovamente in cammino.

Arrivato a Belprato, il paesino prima del suo amato Livemmo, si accorse, nel tenue chiarore di qualche lampione, che non c'era neve a quella quota e quindi probabilmente non ne avrebbe trovata neanche più avanti. In un'ora circa mio padre era ormai giunto a destinazione e le seimila lire spese per il trasporto non mi son parte una cifra così esorbitante, specialmente se paragonate ai circa quindi euro da me spesi per farci trasportare all'hotel Industria, base di partenza per il nostro noto viaggio a Lourdes.

Giunto con le due valigie in mano sotto casa, papà pronunciò a voce alta il cognome della sua famiglia per chiedere se i suoi c'erano. Fu accolto dalla madre. Suo padre invece era al fienile con le bestie e papà lo rivide soltanto il mattino seguente. Notò il fisico ricurvo del genitore e gli parve più vecchio rispetto ai cinquantotto anni che aveva. Mio nonno gli disse che ora che lui era tornato non gli sarebbe dispiaciuto neppure di morire.

Queste sono le mie radici e gli eventi da cui provengo. Il racconto di questo ritorno dall'Australia mi ha emozionato ed entusiasmato come non riuscivano a fare i fantasiosi racconti di papà di quando s'imbatteva in serpenti velenosi, koala ed iguane.

mercoledì 16 giugno 2010

Chicchina


Come avevo promesso, ora tocca a te, dolce amore mio.

Ne approfitto, mentre sei fuori a cena con i tuoi studenti per il saluto di fine anno. Premurosa come sempre, mi hai fatto trovare sulla tavola un pezzo di dolce all'uva che ho mangiato avidamente accompagnandolo con un po' di champagne, ormai senza bollicine, rimasto nel frigo dal compleanno di tua madre. Ed intanto, con lento upload, sto inviando in internet per la stampa alcune foto ricordo di quella bella festa.

Quanto l'altro giorno ti ho accennato di questo mio proposito di scrivere qualcosa su di te e t'invitavo ad indovinare l'immagine che avrei scelto, non hai avuto dubbi e senza esitazione hai pensato a quella posa con il ghiacciolo.

Lo sai che questa fotografia mi piace particolarmente. Dall'espressione del tuo viso, che è quasi una smorfia, trapela con facilità il tuo gusto per le cose semplici, che poi sono anche quelle più vere e che arrecano felicità autentica.

Gli anni volano ormai, ma sembra ieri quando ti vidi per la prima volta. Di buon mattino ero in attesa con i ragazzi sul piazzale dell'hotel Industria, a Brescia. Attendevamo che arrivasse il bus navetta per portarci al pullman con cui saremmo andati in pellegrinaggio a Lourdes. Non c'era nessun altro in giro a quell'ora. Dopo qualche istante uscisti dall'albergo dove avevi pernottato assieme all'amica Flavia, alquanto arrabbiata per essere dovuta venire fin lì da Cremona perché, vi avevano detto in agenzia, non erano previste fermate nella vostra città.

Io di questa cosa sono sempre stato molto contento perché se così non fosse stato mi sarei perso il tuo primo sorriso. Certamente di circostanza, come le persone solari sanno dispensare con prodigalità. Ma non mi è stato indifferente e, di certo, ha mosso qualche leva giusta nel profondo del mio intimo.

Ho già scritto, specialmente nei primi tempi dopo il ritorno, come questo viaggio sia entrato nell'anima di noi tutti. Un'occasione spirituale, che talvolta ti ha fatto soffrire fino alle lacrime, come mi confidasti successivamente. Ma ci ha elevato entrambi in alto, tanto da farci dire per un lungo periodo dopo il nostro rientro, di sentirci ancora sul Tabor.

Non ci siamo incontrati per caso. E' questo quello che ci piace credere. E non ci saremmo mai trovati se non fossimo stati, in qualche modo, guidati dall'Alto.

Quando poi abbiamo iniziato a frequentarci, è stato bello scoprire nell'altro ciò che desideravamo da sempre. Solo Colui che ci conosce nell'intimo poteva dare pieno compimento a tutti i nostri desideri più veri.

Comunque non ti ho idealizzato. Nonostante le lenti che porto, ci vedo bene ed i tuoi difetti, che pur ci sono, non contano e per me sono di gran lunga sovrastati dalle tue numerose qualità. Poi non sei solo intelligente, sei anche una donna molto paziente e mi dai modo di crescere sempre più nella direzione giusta. Sì, perché non c'è mai niente di scontato, non si può mai dire di essere giunti alla meta della perfezione interiore, com'è ovvio, e ci resta sempre qualche angolo del nostro carattere da smussare, qualche spigolo da arrotondare così bene come solo la vita di coppia sa fare.

Sono contento sai, quando mi dici che gli altri, incontrandoti, ti trovano insolitamente raggiante e vitale. Vederti felice aumenta ancor di più la mia gioia. Tutto questo è straordinario, visto che in questo nostro percorso a due non sono di certo mancati i momenti d'apprensione per questo o quel problema, di salute oppure non. Ma la vita è così. Poter contare sull'amore profondo di chi ci circonda aiuta a vedere sempre il sereno al di là delle nuvole e quando ad uno fa difetto la speranza, l'altro infonde coraggio ed energie nuove per affrontare il cammino quotidiano.

Tutto sommato, come puoi vedere, non ho parlato troppo di te. Più che altro son finito col dire qualcosa di noi, come è giusto che sia. Perché non siamo più due, ma una carne sola e se è pur vero che ciò che fa male a te, fa soffrire anche me, non c'è dubbio che ciò che ti alimenta e ti rende più vitale certamente completa anche la mia vita.

Grazie per avermi amato e di continuare a farlo.

domenica 30 maggio 2010

Premonizioni ineluttabili


Mi sento prigioniero, limitato nella mia libertà di azione. E questo semplicemente perché da oltre tre settimane ho perso l'uso dell'automobile. E' proprio vero che apprezziamo fino in fondo quello che abbiamo solo nel momento in cui ne restiamo senza. Questo vale per i beni materiali e tanto più per le persone.

Sto attendendo con una certa impazienza che il bravo meccanico a cui mi sono affidato completi il suo lavoro. Purtroppo a causa di un violento ed intensissimo nubifragio abbiamo avuto l'allagamento del cortile per l'acqua che, fuoriuscita dalla roggia comunale, si è riversata in esso fino alla rovinosa altezza di circa un metro.

Fortunatamente sono coperto con l'assicurazione per danni causati da eventi naturali. Ad alcuni dei miei condomini non è andata altrettanto bene ed ora attendono speranzosi che l'ufficio tecnico del Comune completi la perizia per definire le sue responsabilità così, forse, potranno ricevere un indennizzo per le loro cose.

Qualche giorno prima di questi avvenimenti continuavo a pensare che non mi era ancora capitato nulla all'auto. Nessun incidente, nessun graffio, neppure  nell'entrare o uscire dal garage, come invece mi era successo con le precedenti autovetture, oltretutto di dimensioni più ridotte.

Anni fa avevo vissuto la stessa sensazione di premonizione con Santina. Mi ero soffermato a pensare più volte, mentre rincasavo dal lavoro, che stavamo trascorrendo un periodo sereno e tranquillo, a volte perfino noioso, ma che la felicità stesse appunto in questo. Niente di straordinario o di troppo diverso dall'usuale, se non le solite cose di tutti i giorni, senza preoccupazioni, né affanni.

Poi, come lo strano silenzio che precede la catastrofe o qualche altro cataclisma naturale, gli eventi precipitano e ne vieni travolto. Ed è già molto poterne uscire indenni, salvando la pelle. Non sempre è così. Qualche volta invece che la conta dei danni, ci resta la ben più gravosa conta dei morti.

Può darsi che qualcuno di noi, dotato di una maggiore sensibilità, riesca in qualche forma a sentire in anticipo i guai che già stanno galoppando di gran carriera e porteranno ineluttabile distruzione. In caso di terremoto pare che alcuni animali riescano a percepire qualcosa e diano segni d'irrequietezza ed agitazione.

Se fossimo bravi e sapessimo interpretare bene queste avvisaglie, potremmo tentare di metterci in salvo per tempo e limitare, se non evitare completamente, la rovina che, tutto sommato, finisce sempre col coglierci impreparati.

venerdì 28 maggio 2010

Dietro quella porta


La seconda domenica di maggio, notoriamente festa della mamma, avevamo un impegno programmato da tempo in parrocchia e quindi non potevamo passarlo con la madre di Maria Luisa. Abbiamo allora deciso di anticipare il festeggiamento di una settimana scendendo a Cremona per stare insieme a nonna Carla e tenerle compagnia per qualche ora. Non volevo che la nostra visita fosse per lei motivo di un affaticamento extra e pertanto abbiamo deciso di spostarci poco oltre l'altra sponda del Po, nel piacentino, tornando a visitare un locale alla mano in cui abbiamo sempre mangiato bene.

La giornata non era delle migliori, meteorologicamente parlando. Comunque sia non vi abbiamo dato troppo peso, visto che avremmo passato la maggior parte del nostro tempo con le gambe sotto ad una tavola imbandita. Nonna Carla, come molte persone della sua età, tende a mangiare poco, vuoi per problemi di dentatura, vuoi per senile inappetenza. Avendo un buonissimo rapporto col cibo, mi viene naturale stimolare chiunque mangi con aria svogliata a compiere uno sforzo e lasciarsi andare ai piaceri del palato, quantomeno nelle occasioni in cui possiamo trovare tutto già pronto perché sono stati altri a prodigarsi per noi.

In realtà la mia opera di convincimento non è stata troppo ardua ed ho avuto la soddisfazione di vedere mia suocera alimentarsi con maggior convinzione e gusto rispetto al suo solito. Anzi, nei giorni successivi è arrivata addirittura a desiderare di ritornare presto in quel locale per assaggiare anche altri piatti che aveva visto sul menu.

Dopo alcune ore di pressoché totale immobilità, tutti concentrati nell'attività di degustazione, le nostre membra avevano ormai voglia di svago all'aria aperta. La madre di mia moglie non è più una grande camminatrice, specialmente ora che le è stato innestato un pace-maker per regolare il ritmo del suo cuore. Nonostante questo, una volta terminato il pranzo, non avevo voglia di riaccompagnarla subito a casa così che si rinchiudesse nuovamente fra le sue quattro mura. Quelle pareti saranno pure molto confortanti per lei, ma credo che talvolta le tolgano ogni stimolo per continuare ad apprezzare con più entusiasmo la gioia di vivere.

Una volta saliti in macchina, ho lanciato la proposta di tornare in città e, se la cosa era gradita, avremmo potuto fare una breve visita a San Sigismondo dove so che Carla ha fatto studi per la sua tesi di laurea. Magari le sarebbe piaciuto tornare a dare uno sguardo intorno, anche se deve averla vista chissà quante volte e sicuramente conosce quella struttura, gli affreschi ed i dipinti in essa contenuti, con la stessa precisione e con lo stesso livello di dettaglio di un catalogo enciclopedico.

Parcheggiata l'auto poco distante, all'ombra di enormi platani secolari, mentre madre e figlia si davano braccetto una con l'altra, con pochi tranquilli passi siamo entrati in questa chiesa quattrocentesca progettata per volontà di Bianca Maria Visconti a ricordo del matrimonio con Francesco Sforza avvenuto nel 1441. L'interno venne affrescato a partire dal 1535 e rappresenta uno dei più significativi complessi decorativi del manierismo cinquecentesco dell'Italia settentrionale.

Dopo esserci soffermati per qualche breve istante davanti alle numerose nicchie delle navate laterali, in cui ricevevo brevi lezioni di storia dell'arte, sia dalla moglie che dalla suocera, giungiamo infine nei pressi dell'altare, il cui accesso è interdetto da un'alta cancellata. Allora ci accomodiamo in un banco e sostiamo un attimo in silenziosa preghiera.

Il mio sguardo cade quasi distrattamente su una specie di porta candele posto lì a lato. Negli appositi ripiani, invece dei ceri, ci sono alcuni foglietti e qualche penna per scrivere. Un cartoncino avvisa che chiunque può servirsene per lasciare uno scritto da imbucare nella fessura di quella che una volta doveva essere la cassetta delle offerte. Mi è noto che da diversi mesi nel complesso di San Sigismondo è ospitata una piccola comunità di suore di clausura. Una di queste religiose è seduta all'organo, al di là del cancello che ci separa dall'altare e, col tocco delicato delle sue mani, ne fa uscire armoniose melodie.

Non so resistere e prelevo un foglietto ed una penna che sembravano ammiccare ed invitarmi con insistenza. Mi rendo subito conto che le libagioni e l'ottimo pranzo hanno smorzato qualsiasi mia velleità poetica e sebbene la scrittura esca fluente, il periodare risulta impreciso e non completamente lucido.

Vorrei stabilire un contatto con chi mi leggerà da dietro quella porta. Non chiedo una preghiera per me solo, ma la invoco per tutte le famiglie, da cui provengono, in ultima analisi, tutte le vocazioni. Lascio scritta la promessa di un pensiero reciproco per chi sta al di là della grata e che un giorno fece la scelta di ritirarsi lontano dal mondo, con un voto coraggioso, quasi uno scandalo, incomprensibile per i più.

sabato 17 aprile 2010

Sette vite


Come una folgorazione, m'è balenata in testa l'idea di aver già vissuto sette vite.

La prima, legata all'infanzia, trascorsa nella cascina di campagna tra Rivoltella del Garda e San Martino della Battaglia. Di quegli anni ricordo i miei primi passi nel mondo della natura. Ho ancora negli occhi le ragnatele coperte di brina, i variopinti fiorellini, gli alberi da frutto da cui prendevo con avidità i mille sapori, le messi dorate, le rondini che facevano il nido sotto il portico della stalla, il frinire delle cicale d'estate, mentre all'aperto fissavamo la luna piena. E poi ancora il sapore del mosto, l'arancio vivo dei cachi, il grigio delle nebbie per arrivare alle mille luci colorate dei presepi nelle cascine vicine che mia madre mi portava a visitare. Poi di nuovo il ciclo si ripeteva ed avevo modo di approfondire quanto già visto oppure esplorare con immenso stupore altre novità.

Poco prima d'iniziare la scuola elementare, papà ha abbandonato la vita del contadino ed è così cominciata per me la seconda, qui in città, a Brescia. In quegli anni tanti ci domandavano se eravamo dispiaciuti di essere venuti via dalla cascina di campagna. Non ho mai avuto rimpianti, né avuto nostalgia di quel che avevo lasciato. Trovavo piacevole anche questa nuova esistenza. Le prime esperienze di gioco in gruppo, con ragazzi più grandi di me. Fantasticavamo sulla possibilità di costruire fortificazioni e far parte di un piccolo esercito di soldati, giocavamo a gare di automobiline sulle piste disegnate sull'asfalto con un pezzo di mattone, talvolta col candido gesso. Tornavo dalla montagna, dove eravamo stati a trovare i nonni, con archi, spade, fucili di legno che mio padre abilmente forgiava per la mia gioia.

Poi, dopo questi primi anni in cui siamo stati in affitto vicino all'abitazione dei nonni materni, i miei genitori hanno acquistato una casa più in periferia. Non era ancora tutto cementificato. C'erano numerosi campi attorno alla nostra abitazione e, per certi versi, in questa terza vita mi sembrava di riassaporare un po' i colori e le immagini della prima. Crescevo e provavo il gusto per le collezioni. Il gioco delle biglie, che si prendeva tanto dei miei pomeriggi estivi e non. La raccolta delle figurine con i vari riti per l'acquisto, lo scambio fra amici, il completamento dell'album: tanti iniziati, ma uno solo terminato. I primi calci seri al pallone, senza che questo sport si sia mai preso tanta parte di me. I giornalini di Topolino. La bicicletta che ho invece amato e desiderato come nient'altro. Le lunghe scorribande fino a portarci sulle colline dei paesi vicini, senza che i genitori avessero troppo a temere per la nostra incolumità. Altre velocità ed altre quantità di automezzi in circolazione. Ragazzo delle medie mi ero vantato coi miei di essere arrivato fino al lago d'Iseo. A mia madre, che in tempo di guerra faceva la spola tra Brescia e Ghedi per andare a prendere un grosso sacco di farina per il pane e la pasta della sua famiglia, non deve certo essere sembrata una grande impresa.

La quarta vita è stata tappa d'esplorazioni interiori. Deciso a diventare prete sono entrato in Seminario, dove ho frequentato il Ginnasio ed il Liceo classico. Convinto che quella fosse la mia vocazione, avevo abbandonato tutto: la mia nascente passione per le cose tecniche e per l'elettronica in particolare. Le ragazze, che mi sono sempre piaciute un sacco e da cui ora distoglievo perfino lo sguardo perché, ne ero convinto, Dio mi chiamava ad una vita di celibato. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Gli anni dell'adolescenza sono stati caratterizzati da austerità, impegno, ma non troppo, per lo studio e allenamento all'oblazione di sé per il bene degli altri. Come potevo aspirare a diventare il sacerdote di tutti, se rifuggivo, per non cadere in tentazione, il contatto con l'altro sesso? Non si diventa preti per soli uomini. Gli studi di filosofia alimentavano le mie crisi. Come poteva Dio chiamarmi a qualcosa di diverso da quello a cui avevo sempre aspirato fin dalla tenera età? Se quella era la Sua volontà, allora avrei ricevuto la forza per rinunciare all'affetto di una buona moglie, alla gioia di figli nostri e avrei portato il suo Verbo la dove lo spirito di missione mi avrebbe spinto.

Un giorno però ho incontrato Santina, o meglio, l'ho rivista sotto una luce diversa durante un ritiro parrocchiale con i giovani della nostra comunità. Sentivo di essere attratto verso una vita diversa: la quinta. Con l'esame di maturità abbandonavo definitivamente la strada sacerdotale e m'incamminavo verso quella di ingegnere. Ma gli studi universitari non hanno ricevuto da me l'attenzione che meritavano. Dopo il primo anno, svanita ormai la passione per l'elettronica, decidevo di ritirarmi e per schiarirmi le idee, affrontavo il servizio di leva. Ero già stato lontano da casa e, se non proprio in una caserma, avevo imparato a badare a me stesso senza mamma e papà che continuamente  provvedono a te. Pensai che quello fosse un anno buttato via, ma non volevo fare obiezione civile solo per potermene stare più vicino a casa. Inaspettatamente il servizio di leva gettò le basi della mia successiva professione d'informatico. Una volta congedato, mi sono iscritto alla facoltà di matematica, qui alla Cattolica di Brescia. Sono riuscito a dare solo un paio d'esami e poi ho abbandonato anche quest'altro ateneo per tuffarmi nel mondo del lavoro. Erano anni in cui in questo mestiere s'imparava più da soli che in un'aula universitaria. Non faticai, per la grande passione, a farmi strada e a concretizzare in un paio d'anni l'obiettivo del matrimonio, dopo oltre sei anni di fidanzamento. Poi sono arrivati presto i figli a cui non ho sempre dedicato il giusto tempo perché troppo assorbito dal lavoro che continuavo a fare con entusiasmo. Ma la mia vita era, per così dire, monotematica. Computer al lavoro e riviste d'informatica nel tempo libero a casa. Santina, quanta pazienza hai portato. Però, quando eri malata me ne sono ricordato ed allora ho detto quella frase. Che cioè tu avevi portato pazienza quando mi dedicavo un po' troppo al lavoro ed ora la ditta avrebbe portato pazienza permettendomi di accompagnarti durante le sedute di chemioterapia e durante tutto il travaglio successivo il cui sbocco è stata la sesta vita.

Sì, la vita senza di te è stata la mia sesta. Anni duri, di solitudine, d'incomprensioni, di rapporti difficili, ma con il pensiero fisso di potercela fare, di doverlo fare per i nostri ragazzi alle cui cure tu ti eri tanto raccomandata con me prima di morire. Credo di aver recuperato il tempo perduto. Però non è stato bello averlo fatto lontano da te. Senza lo spazio per condividere una lacrima, senza il modo per ricevere un sorriso, scambiare un caloroso abbraccio, coprirti le labbra con un bacio. Grazie al Cielo, da cui non ho mai distolto lo sguardo, neppure nei momenti più bassi, neppure quando lo sconforto sfociava nella disperazione, Andrea ed Alessandra sono cresciuti forti e, quel che più conta, sono bravi ragazzi, come spero sarebbe piaciuto a te che diventassero. Ma il mio dolore, la mia pena non è poi durata a lungo. Cinque anni sono volati in fretta e benedetta la sofferenza che mi ha portato a rivedere in Maria Luisa, nel suo primo sorriso, il tuo.

Ora, in questa nuova e settima vita, mi sento l'uomo fortunato di sempre che ha ricevuto tanto e sente il dovere di restituire un po' di quell'abbondanza. Mi stupisce, ma poi non più di tanto, quando mia moglie Maria Luisa mi dice che in fondo sono rimasto il sacerdote che non sono mai diventato. Non lo so se è così. Varcate le porte del terzo millennio forse si può essere servi di Dio anche in questo modo. Senza celebrare l'Eucaristia sull'altare, ma affrontando la quotidianità con occhi diversi. Con quelli del credente che ha la certezza che prima di essere amati dal frutto del nostro grembo, dalla persona che ci siamo scelti in sposa, lo siamo da parte di Chi ci ha prediletti fin dall'eternità e non ha grosse pretese per quello che possiamo offrirgli se non accettare, senza riserve, che Lui ci voglia bene, anche quando il modo o le circostanze possono farci pensare il contrario.

Ho davanti a me altre vite? Questo ovviamente non lo so, ma guardo avanti con attenzione: non vorrei che mi sfuggisse qualcosa o che mi perdessi il piacere di vivere fino in fondo le possibilità che mi sono date.

domenica 11 aprile 2010

La fede è cosa per vecchi?


Cari amici, ci risiamo. I giovani sono tornati nel mirino dei sondaggi e delle analisi. A distanza di pochi giorni, leggendo due notizie comparse sulla stampa nazionale, ho preso un pugno in pieno volto, capace di mandare al tappeto il migliore dei pugili in circolazione!
Due guantoni sul muso. Primo montante: quasi la metà dei giovani italiani sarebbe razzista e diffidente nei confronti degli stranieri. Solo il 40% si dichiara "aperto" alle novità e alle nuove etnie che ormai popolano il nostro Paese. È il ritratto offerto dall'indagine, "Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti", presentato alla Camera dei deputati.
Il secondo montante è venuto da una notizia forse ancora più spietata:  sempre più persone considerano estranea la fede cristiana, tanto che si può parlare di "prima generazione incredula". Sono i figli dei figli del Sessantotto che si trovano digiuni di qualsiasi esperienza e cognizione cristiana. La fede è un fatto del passato, che non li riguarda, un concetto da libri di storia.
Vorrei soffermarmi su questo secondo aspetto, che don Armando Matteo ha spiegato nel libro "la prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede" (Soveria Mannelli, Rubinetto, 108 pagine, 10 euro).
I giovani sono sordi e impermeabili alla grande offerta che pure è possibile trovare nelle parrocchie. Con una battuta si potrebbe dire che gli oratori diventano sempre più moderni, i sacerdoti passano dalla tonaca ai jeans, ma le chiese sono disertate dalle nuove generazioni. La fede riguarda una minoranza di giovani che, per quanto creativa, è trascurabile all'interno di una massa che ha testa e cuore altrove.
Il quadro è a tinte fosche. Ma c'è di peggio. Il 90% dei giovani si professa cattolico, sceglie l'insegnamento religioso nella scuola, ma in chiesa non mette quasi piede. La fede diventa in questo modo un fattore solo culturale, di appartenenza senza credenza. Secondo don Matteo (che non è Terence Hill, ma l'assistente della Federazione universitaria cattolica italiana), stiamo imparando a vivere senza Dio e senza chiesa.
Come al solito, le colpe sono distribuite: un po' vanno ai genitori, che per primi hanno rotto la cinghia di trasmissione della fede da generazione a generazione ; un po' vanno alla società di oggi, che soffre di narcisismo e voglia di eterna giovinezza, a ogni costo e con qualunque mezzo, mentre è debole nell'assumere le responsabilità personali e comunitarie.
Qualcosa di simile avviene anche nella chiesa, brava a organizzare i grandi eventi per i giovani, ma poco incisiva nelle sue quotidiane proposte pastorali e incapace di offrire testimonianze che facciano intravedere un accordo tra la fede e la vita. La fede, infatti, è avvertita come un peso, un "affare" che va bene finché si è bambini, ma poi... non c'entra più. Così calano i battesimi, le cresime, i matrimoni religiosi e le vocazioni.
Accettiamo la provocazione. Certamente la fede è esigente, ma vale la pena viverla da giovani! Occorre ampliare e personalizzare le occasioni di incontro. Forse ognuno di noi potrebbe portare le proprie esperienze di fede a don Matteo. Noi siamo pronti ad accoglierle e rilanciarle. Chissà che don Matteo - e noi con lui - non riesca a consolarsi e possa scrivere presto un altro libro dal titolo, "I nipoti del '68 spiegano la fede ai loro genitori".
Senza sottovalutare questa importante indagine sul rapporto tra i giovani d'oggi e la fede, possiamo dire che non è sempre così scomodo essere minoranza. Lo dice perfino il proverbio " Pochi ma buoni"! E poi ricordate la forza del pizzico di lievito dentro la farina? Quei "quattro gatti" che ci credono, diamoci da fare.

Diego Piovani
MISSIONARI SAVERIANI
N. 4 Aprile 2010

sabato 3 aprile 2010

Passaggio


Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? e chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?
E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?
Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?
Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.
Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.

Matteo 6,25-34

sabato 13 marzo 2010

Le scarpe


Oh, che bello potersi ritagliare un momento di relax davanti al PC e picchiettare le dita sulla tastiera nel tentativo di fissare su carta virtuale il proprio pensiero...

Questa settimana Alessandra è andata in gita scolastica a Firenze. Indi per cui mi sono lasciato convincere da mia moglie Maria Luisa a puntare la sveglia un'ora più avanti, anche se, come ogni sabato, ci dovevamo recare di buon mattino in piscina. Quando non si devono spingere i figli giù dal letto per avviarci faticosamente ai doveri della giornata, si riesce a fare tutto molto più in fretta, recuperando così qualche momento prezioso di sonno.

Senza il giro largo che dobbiamo fare le altre mattine per lasciare la figlia nei pressi della scuola, ci abbiamo messo veramente un attimo per raggiungere l'impianto sportivo che siamo soliti frequentare. Chi ha imparato a conoscermi può facilmente immaginare che la mia predilezione vada ad un centro non proprio alla moda, lontano dal clamore di altri ben più blasonati e frequentati nella nostra città. Si capisce anche da questo che mi sto inesorabilmente addentrando nell'età avanzata, per non usare termini ancor più espliciti nel tentativo di non suscitare la disapprovazione della consorte che al mio fianco dice di sentirsi ringiovanire ogni giorno sempre di più. Ma non m'illudo; sfioro ormai i cinquanta e gli anni verdi di sicuro non tornano più.

Mi resta talvolta il rimpianto di non aver osato maggiormente per non sentirmi ora addosso un mal celato senso d'insoddisfazione per una vita che sfugge via rapida con la certezza di non aver contribuito granché a lasciare questo mondo migliore di come l'ho trovato.

Poi nel fare le polveri di casa mi soffermo con lo sguardo sul calendario che Maria Luisa ha regalato ad Alessandra e vi leggo: "Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi". Ed allora le parole di San Paolo ai Romani (certamente, almeno per il nome, anch'io ne sono destinatario) mi ammoniscono ed al contempo m'acquietano l'animo.

Scendiamo le scale della piscina e prima di accedere agli spogliatoi ci dobbiamo levare le scarpe. Le disponiamo distrattamente su uno dei ripiani dell'armadietto di metallo posto nell'atrio di accesso. Torneremo a riprenderle più tardi. Non ce ne sono molte altre paia in loro compagnia. A quest'ora evidentemente sono pochi quelli che hanno avuto voglia di venire a tuffarsi in acqua. M'immergo con entusiasmo anche se talvolta mi coglie un brivido di freddo, soprattutto se non ho evitato di fare una doccia preliminare troppo calda per abituare meglio la pelle ed il corpo ad una temperatura più bassa.

Entro lentamente, senza prodigarmi subito in vigorose bracciate. Le prime vasche le completo a rana, con uno stile tutto mio, molto lontano dall'ortodossia sportiva, ma molto adatto a me perché mi consente di mantenere costantemente la testa fuori dal pelo dell'acqua. Poi da un po' di volte in qua, forse anche per rilassare maggiormente la schiena, ho provato a girarmi su me stesso nel tentativo di nuotare sul dorso. Ormai so stare a galla da parecchi anni senza problemi, ma non mi ero mai avventurato in uno stile diverso dal mio solito. Per un'ora intera non smetto di sguazzare, senza fermarmi mai, ma soprattutto senza mai poggiar i piedi sul fondo della vasca.

Adesso che ho imparato a muovermi ben disteso di schiena, trovo che il godimento sia massimo. Non uscirei più dall'acqua. Vado avanti ed indietro fissando il soffitto della piscina che scorre velocemente davanti a me (almeno così mi piace immaginare). Non si va a fondo neanche a volerlo. Se l'entusiasmo e la foga per bracciate più energiche ci arrecano un po' d'affanno, in questa posizione è molto facile recuperare fiato. Ho provato a muovermi anche a stile libero. Riesco soltanto a fare qualche metro in totale apnea. Magari più avanti sarò capace di trovare ritmo e coordinazione e, in tal caso, non mancherò di ragguagliarvi.

L'ora a disposizione vola via fin troppo velocemente. Non mi sento ancora stanco. A bordo vasca si muove circospetta l'istruttrice che tiene il corso di nuoto ai ragazzini che entrano subito dopo di noi. Forse un modo delicato per farmi capire che è purtroppo ora di uscire. Maria Luisa è già salita da qualche minuto perché dice di essere lenta e non vuole farmi attendere troppo. Lascio svogliatamente l'acqua. Mi chiedo se nel liquido amniotico materno si prova la stessa sensazione di benessere. Probabilmente è anche meglio. La temperatura è ancora più alta: chissà quante rughette sui polpastrelli delle dita!

Nonostante me la sia presa con calma nel farmi la doccia e rivestirmi, esco dagli spogliatoi prima di mia moglie. Un sabato precedente, seduto sulla panchina antistante, mi sono soffermato un attimo ad osservare le calzature disposte sugli scaffali. Uno psicologo attento potrebbe dire molte cose di noi guardando le nostre scarpe e come le disponiamo. Mi pareva di fare una cosa indiscreta, quasi di rubare un momento d'intimità, restandomene lì a fissarle. C'è chi le dispone con cura, con le calze ben ripiegate dentro ad ognuna; chi vi lascia pure la borsina di plastica in cui erano avvolte per portarsele appresso. Ce ne sono di modeste ed un tantino rovinate, come le mie, o di eleganti ed alla moda, come quelle della signora di cui ho incrociato fugacemente lo sguardo qualche settimana fa. Era esattamente come me la immaginavo. Non più tanto giovane, ma con una certa cura ed attenzione di sé. Le scarpe me l'avevano già presentata. Quanta umanità riesce a trasparire dalle nostre calzature. Quelle ormai sformate e consumate sul tacco, ci dicono che ci stiamo trascinando a fatica sotto il peso dei nostri anni. Quelle lucide e ben tenute dicono che vogliamo farci valere e contare qualcosa di più nella società: insomma, che non possiamo passare inosservati.

Quante scarpe abbiamo messo ai piedi, ora che il progresso ed il benessere ce lo consentono! Talvolta le compriamo più per sfizio che per bisogno e non riusciamo neanche a consumarle tutte fino al punto da non avere rimorsi nel buttarle. Non così i nostri padri che hanno camminato su strade sconnesse con ai piedi soltanto zoccoli, scarpe di pezza o talvolta niente affatto. Tutto quello che abbiamo oggi lo dobbiamo ad essi ed ai loro sogni ormai realizzati per un domani migliore, meno ricco di asprezze e di sacrifici.

Forse l'affanno per le cose che mancavano è stato eccessivo così che ora siamo sommersi dall'inutile e dal sovrappiù. Ci stiamo dimenticando di ciò che è veramente importante e per cui vale la pena di mettersi in viaggio sulla strada che ci può portare alla felicità duratura. Ma non la si trova se non si cerca la Verità, che ci spinge ad amare ogni uomo come nostro fratello, anche colui che si toglie le scarpe per entrare in una moschea a pregare.

domenica 21 febbraio 2010

Che cos'è la vita?


Il criterio di autenticità della vita deve essere intrinseco alla vita stessa, non provenirle dall'esterno come qualcosa di estraneo e inevitabilmente autoritario, come una norma, un comando, un'ideologia di qualunque tipo che pretenda di giudicare che cosa sia autentico e che cosa non lo sia in casa nostra. Per questo è necessario indagare la vita per quello che essa è nella sua semplice e nuda realtà. Ma che cos'è la vita? E' anzitutto un fenomeno fisico e biologico che ci accomuna a ogni altro essere vivente, base dell'esperienza vitale nelle innumerevoli forme in cui essa si declina: bisogno di cibo, passione erotica, curiosità di conoscere, dolore fisico, quiete gioiosa per una sera d'inverno a casa in famiglia, voglia di evasione in una notte d'estate e mille altri istinti, paure, desideri, avventure.


Vito Mancuso
La vita autentica
Raffaello Cortina Editore

giovedì 18 febbraio 2010

Retrospettiva

Il 13 gennaio 2001 ci ha lasciati Santina Bettinzoli.

Santina ha lavorato per molti anni all'Ufficio delibere della U.O. Affari Istituzionali degli Spedali Civili di Brescia. Ricordandola non possiamo che pensare ai suoi forti valori di Donna Moglie e Madre e a quella sua particolare ironia e senso dell'umorismo con cui riusciva sempre ad "alleggerire" la quotidianità e le tensioni del lavoro.

Tuttavia Santina per i colleghi è stata soprattutto una Donna speciale. Nella malattia e nel dolore non solo ha saputo donare la sua straordinaria forza, ma è andata oltre, ha saputo arrivare al loro cuore e se oggi vogliamo dare voce alle emozioni, abbiamo una certezza: è stato facile volerle bene.

Tratto dal "Notiziario religioso" pubblicato dagli Spedali Civili di Brescia.

Quando ci siamo sposati, pioveva e a mia zia è venuto naturale fare a Santina il noto augurio: "Sposa bagnata, sposa fortunata". Sorridendo ella rispose: "Io sono fortunata per altre cose, non perchè piove".

Durante la malattia, piangendo le dissi: "Tu per me sei Madre, Padre, Moglie, Amica e Amante. Perdendo te io perdo tutto". Mi rispose: "A volte puntando su una sola persona si rischia di restare fregati".

In ospedale le confidai che avevano riscontrato metastasi cerebrali. Mi chiese quanto tempo le restava e subito dopo volle che provvedessi a fare per conto suo un regalo alle persone che le erano più vicine.

Quando venne dimessa, mi raccomandò di porgere ai medici e al personale infermieristico le sue scuse per il disturbo arrecato.

Un amico, venendo a far visita a Santina dopo il decesso, mi disse: "Ma perchè continui a ringraziare?". Gli risposi che era una lezione che stavo imparando da lei.

Sulla tua lapide ho fatto apporre una sola scritta: "GRAZIE".

Il 30 aprile 2001 avresti compiuto 39 anni. Ho ritrovato le lettere che ti scrissi quando eravamo fidanzati. Fra esse c'erano alcune "poesie" che ti ho dedicato in quegli anni. Una lettera mi ha particolarmente inquietato a causa del contenuto che non ricordavo assolutamente...

SANTINA FOTO GALLERY

Ho raccolto in questa pagina alcune tue fotografie disponendole in ordine cronologico. Sicuramente sei rimasta nel cuore e nella mente di chi ti ha amato con altre infinite immagini e sequenze diverse di cui queste istantanee sono solo un fugace riassunto. Nella didascalia che le accompagna mi lascio andare a qualche pensiero o ricordo correlato.


Questa prima fotografia ti ritrae molto piccola. Sicuramente fra i tuoi parenti evocherà maggiori ricordi che a me, per forza di cose, dato che non ti conoscevo ancora. Il tuo sorriso campeggia al centro della foto e ne diviene punto focale. L’hai sempre custodita con affetto sopra il tuo comodino e lì si trova ancora.


In quest’altra invece ti si vede "armeggiare" con ago e filo. Sei sempre stata una lodevole donna di casa e di certo questo è merito di chi ti ha educata fin da piccola. In te ho avuto la fortuna di ritrovare quelle virtù dal sapore antico che ormai raramente si trovano ancora nelle donne d’oggi perché i tempi sono troppo repentinamente cambiati.


E qui ti vediamo un poco più grandicella attorniata dai tuoi giocattoli preferiti. Facile scorgere le tue future premure materne in questo stretto, ma insieme delicato, abbraccio fra te e la tua bambola.


Qui facciamo un bel balzo. Per chi non riesce ad individuarti, tu sei quella seduta, la seconda da destra. Ho inserito questa foto ricordo delle superiori per un motivo ben preciso. Spesso alle colleghe incredule dicevi: "Quella persona io la conosco perché è stata a scuola con me!".


Questa è una delle ultime foto prima che ci conoscessimo. Una lacrima ed un sorriso: estrema sintesi di tutta una vita.


Questa fotografia non ti rende giustizia ma l’ho inserita perché in quel periodo ci eravamo appena conosciuti e cominciavamo a muovere i primi passi insieme. Durante il ballo per la festa dell’Oratorio, tutta eccitata e coinvolta, ad un certo punto mi dicesti: "Romano, pensi che andrò all’inferno?". Non mi ero ancora dichiarato, ma ormai cotto pensai fra me: "Se tu ci andassi, io ti seguirei".

Quel che mi attende dopo morte non lo so. Sicuramente mi piace pensare di te che sei là in alto, in quel posto che quaggiù chiamiamo Paradiso.



Questa foto ci fu scattata di soppiatto dal nostro curato che ora esercita il ministero come Vescovo in Brasile.

Spalla contro spalla, mano nella mano, guardavamo lontano oltre l’orizzonte. Avresti immaginato allora come sarebbero andate le cose?



Qui ci troviamo a Salerno in occasione del giuramento per il mio servizio di leva. Se non ricordo male è stato quello l’unico periodo in cui siamo stati lontani l’uno dall’altra. Poi abbiamo sempre goduto con abbondanza della quotidiana presenza reciproca.



Qui sopra noi sposi. In assoluto è stato il più bel giorno della mia vita. Anche il giorno del tuo funerale è stato per me ricco di grazie e di mistero. Bello pensare che all'estremo della nostra vita coniugale ci sono questi due momenti, come un materno abbraccio, come due colonne erette a baluardo.


Questa foto ti ritrae stretta ad Andrea. Quest’immagine ti è sempre stata cara perché ti mostrava in tutta la tua serenità a dispetto di altre fotografie riuscite meno bene.


Quest’immagine invece è molto cara a me perché immortala i miei affetti più cari. Ricordi quel giorno sul Maniva, quando ad Andrea volò via il cappello e si fermò sull’orlo del dirupo? Quel giorno nulla cadde in basso; no quel giorno no.



La fotografia seguente ti ritrae attorniata da alcune persone a te molto care. E’ anche la stessa da cui abbiamo tolto l’immagine per la tua lapide.



Questa chiude la serie, ma non i ricordi.

Averti conosciuto ha fatto di me un uomo migliore.

Per tutta la vita, grazie.