Sono stufo di essere vedovo! Questa esclamazione la vado facendo dentro di me da un po’ di tempo. Oggi sono esattamente venti mesi che Santina è morta. Tredici gennaio duemilauno. Lo spartiacque tra il prima ed il poi. La linea di confine fra l’incoscienza e la realtà. E’ com’essere salpati con un veliero verso un’ignota destinazione. Sai con chi parti, ma non sei sicuro se e con chi approderai. A metà del viaggio il tuo compagno preferito, l’amante perfetto, la tenera madre, l’orgoglioso padre cadono in mare perduti per sempre. A nulla vale tendere la mano. Impossibile arrestare la corsa, tornare indietro. Tu sprofondi nell’abisso ed io mi separo da te.
Quale forte tentazione fermare la mia corsa. Eppure bisogna andare avanti. La strada è ancora lunga. Chissà cosa ci riserverà il domani. E’ inevitabile che racconti la mia tragedia personale. Una storia strappalacrime in cui mi sono guadagnato il ruolo di primo attore. Una volta ho mostrato la mano ad una persona che per gioco o per scherzo diceva di saperla leggere. Ricordo ancora l’espressione di sorpresa. Il mio monte di venere è solcato da una netta cicatrice che mi sono procurato all’età di quattro - cinque anni armeggiando con le forbici. Avevo in mano una locomotiva di plastica e volevo recidere un’appendice. Data la poca forza e la scarsa perizia strinsi l’utensile con le due mani: la destra correttamente infilata e la sinistra che racchiudeva la parte altra. Non ricordo se riuscii nell’impresa. Quel che ancora oggi non ho dimenticato è il dolore per la recisione di un lembo di pelle proprio sulla sommità del monte di Venere.
Senz’altro una coincidenza. Come credo sia una coincidenza il fatto che Santina avesse la linea della vita che s’interrompeva a metà del palmo. Comunque è stato bello averti avuto. Anche di recente mi sono soffermato a pensare che se potessi tornare indietro sapendo come poi sarebbe andata a finire, sempre, ogni volta, con rinnovato entusiasmo ti avrei sposata. C’è stato un momento nella nostra vita matrimoniale in cui le cose non andavano per il verso giusto. Un momento in cui ho pensato che separarci potesse essere un modo per risolvere quei conflitti. Mi prese una gran pena il pensiero che tu, lontana da me, un giorno ti saresti potuta ammalare, magari di cancro, guarda un po’. Fui tanto angosciato da quel pensiero e mi vergognai con me stesso di aver pensato alla non-soluzione della separazione.
Ti sono stato accanto. Quando stavi per andartene io c’ero. Mi sono pentito di non essere stato un marito migliore. Te l’ho anche detto piangendo quando ho letto le tue prime analisi. Quando ancora non sapevamo nulla della malattia. Quando quella massa ingombrante albergava già nel tuo intestino. Ignorante sì, ma non abbastanza per non notare che un esame che andava sotto il nome di CEA (Carcino-Embrional-Antigene) era oltre i limiti di normalità.
La mia conversione tardiva è cominciata quel giorno. Intuivo come sarebbe andata a finire, ma non ho mai smesso di sperare. Neanche dopo. Neanche dopo aver chiesto chiarimenti al patologo che fu costretto ad ammettere che ti avrebbero allungato la vita, ma non te l’avrebbero salvata. Ho creduto alla possibilità del miracolo fino alla sera prima del tuo decesso, quando hai chiesto ed ottenuto l’estrema unzione.
Quando Manuela ti venne a trovare la mattina dell’ultimo tuo giorno, di soppiatto ti mise un’immaginetta di Padre Pio sotto il cuscino con la speranza che ti potesse aiutare. Quando gliel’ho restituita dopo la tua morte, sconsolata mi disse che sperava proprio che avrebbe “funzionato”. Le ho risposto che forse lo aveva fatto anche se non come ci saremmo aspettato noi.
Mentre ti vegliavamo, coricando a letto i bambini, Alessandra singhiozzando mi disse che se ce ne fossimo accorti prima della malattia, miracolo, la mamma ci sarebbe ancora. Il miracolo grande della tua salvezza in quelle condizioni non è avvenuto e probabilmente sarebbe stato inutile perché non eravamo pronti per accoglierlo. Quando eri in terapia ed imploravo mentalmente la tua guarigione pensai che se fosse avvenuto il miracolo non lo avrei riconosciuto. Avrei pensato piuttosto che i medici si erano sbagliati. Che tu non eri così grave da andartene per sempre.
Il miracolo vero doveva avvenire anni prima. Aveva ragione Alessandra. Un marito meno disattento doveva e poteva cogliere quei pochi presagi di malattia che in passato si sono manifestati. Mentre stavi per morire ti chiesi se tu eri contenta di me. Mi rispondesti che eri molto orgogliosa di me. Non mi rimprovero quasi nulla per come mi sono comportato durante i quattordici mesi della tua malattia. Per tredici anni hai conosciuto un certo tipo di marito. Ne avrei voluti almeno altrettanti per fartene conoscere uno migliore.
I vedovi tendono ad idealizzare quelli che hanno perso. Credo comunque di essere obiettivo perché i tuoi difetti, le imperfezioni del tuo carattere li ho ancora presenti. Diciamo che spesso ero più attento a quelli che al resto. Non si può dire però che non abbia cercato di stimolarti al meglio. Sono stato un marito fin troppo esigente e spesso non per giuste ragioni. Dal mio punto di vista tu invece sei stata arrendevole. Non hai mai preteso che io cambiassi. Hai sempre detto che ti andavo bene così com’ero.
Sono stufo di essere vedovo. Mi manca una donna da amare e da cui ricevere amore come tu ne hai dato a me. Non ho mai avuto il coraggio di chiederti un bilancio della nostra vita di coppia. Avrei tanto voluto sapere se anche tu, potendo tornare indietro, mi avresti sposato ancora. Non come a pochi mesi di distanza dal matrimonio quando una mattina, mentre rifacevamo il letto prima di andare al lavoro, tu mi dicesti che se fossi tornata indietro non ti saresti più risposata.
Non dicesti che non ti saresti più sposata con me. Dicesti solo che preferivi la vita di prima ed io ci rimasi male, ti ricordi? Tornerò spesso a parlare di te. Ne vale la pena. Pochi mesi dopo la tua perdita, un’amica mi chiese di raccontarle qualcosa di bello. Mi venne spontaneo rispondergli che avrei dovuto parlarle di te. Ed è quello che farò.
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