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sabato 31 gennaio 2015

Intervistami

Come spesso succede, lo spunto per ciò che pubblico su questo blog nasce in maniera del tutto spontanea per chissà quale misterioso processo mentale. Di solito è al mattino presto, poco dopo il risveglio, che percepisco quasi in maniera lampante un'idea, un titolo da utilizzare nelle mie pubbliche conversazioni. Probabilmente il riposo notturno oppure l'aria fresca che lascio entrare nella camera da letto di buonora, sono la condizione ideale per muovere i primi pensieri. Non è così sempre perché spesso le mie prime riflessioni sono immediatamente rapite dalle problematiche di lavoro che richiedono una mente sgombra per essere affrontate e risolte con decisione. Tuttavia non è infrequente che il mio inizio di giornata si apra in maniera del tutto spensierata ed allora può succedere che una prolungata rielaborazione di fatti recenti oppure di visioni televisive della sera precedente, possano in qualche modo accendere la miccia per un nuovo processo mentale che non mi da pace finché non riesco a trasformarlo in uno scritto.

Ed è così che ho immaginato di concedermi ad un'intervista in cui fossi io stesso a porre le domande e a dare le risposte utilizzando come espediente il dialogo con un interlocutore sicuramente sopra le righe e soprattutto ben oltre le mie capacità dialettiche. Con la possibilità più ampia che può derivare soltanto da un gioco di fantasia, ho immaginato di lasciarmi intervistare niente meno che da Hannah Arendt di cui la sera prima avevo visto in TV il film a carattere biografico. Leggendo il suo libro, La banalità del male, avevo sperato di trovare alcune risposte riguardo al male assoluto, così com'è stato definito quello che ha funestato il secolo scorso e che ha trascinato un'intera nazione in una follia collettiva ben organizzata atta all'annientamento di un numero così elevato di esseri umani.

La mia ricerca e sete di risposte sono ancora vive. Non riesco a capire come la perversione, il pensiero diabolico di pochi, possano essere diventati il dictat di molti, se non di tutti. Ho sollevato apertamente queste domande anche in occasione di qualche incontro fra amici dove magari proprio la lettura del libro della Arendt era stato l'input per entrare in argomento.

Se è sconsolante convenire che dietro il perseguimento di obiettivi così drammatici e deplorevoli non vi siano motivazioni consistenti, se insomma le ragioni che hanno portato i più a non ribellarsi, ma ad obbedire ciecamente alla follia di pochi - per non dire di uno solo - sono banali, forse è ancora più tragico intuire che la memoria di quei fatti non basta ad evitare che essi non possano ripetersi mai più.

Perché ogni volta che deleghiamo ad altri la nostra autonoma capacità di pensiero, trasferiamo il nostro pezzetto di male che ci portiamo dentro e lo mettiamo nelle mani di chi sa dargli una forma più grande. E così anche il nostro piccolo male ha la capacità di agglutinarsi e come un cancro diventare un male assoluto che abbiamo già visto e che non avremmo voluto rivedere mai più.

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