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giovedì 8 luglio 2010

C'era una volta in Australia

Oggi sono uscito a pranzo con Lorenzo, Fabio e due loro colleghe di lavoro. Mi sono dimenticato di ordinare un caffè decaffeinato e così ora fatico un po' a prendere sonno. Invece di continuare a rigirarmi inutilmente nel letto in questa calda serata estiva, è meglio che mi metta al PC e scriva qualcosa che mi sta a cuore.

Domenica scorsa è venuto a mangiare da noi nonno Luigi e gli ho preparato una bella grigliata di carne. Ultimamente tende a mangiare meno anche lui, ma, nonostante questa salutare inclinazione a non appesantirsi troppo, sono riuscito ad infilargli nel piatto qualche porzione più abbondante di quello che avrebbe voluto. L'affetto passa anche attraverso il cibo e, servendo quantità più generose ai miei congiunti, mi sembra di manifestare meglio il mio amore per loro.

Dopo aver rigovernato, visto che papà aveva ancora voglia di chiacchierare, ci siamo accomodati in salotto. Non era il caso di uscire per strada in quelle assolate prime ore pomeridiane. Il condizionatore andava a tutto spiano ed evitava che risentissimo troppo della calura, indubbiamente sopra la media del periodo.

Per mio padre è sempre stato facile tornare col pensiero agli anni di lavoro passati in Australia e ricordare questo o quell'episodio che, anche se narrato per l'ennesima volta, non suscita mai noia o disapprovazione. Posso capire come questa grossa fetta di vita da lui trascorsa lontano dalla patria e dalla famiglia, sia pure in compagnia di tanti amici compaesani, lo abbia segnato dentro a tal punto che gli anni successivi al suo ritorno sono stati per lui occasione a più riprese di un continuo raccontare senza soluzione di continuità. Otto anni trascorsi al di là dell'oceano, quando era nel pieno del vigore giovanile, devono essere stati densi di soddisfazione per il miglioramento economico che ne traeva, ma anche di sacrificio per il duro lavoro nelle piantagioni di banane ed ortaggi vari, lontano dai genitori e soprattutto senza una moglie accanto.

Ma lui aveva sempre detto che era fermamente convinto di voler ritornare a casa e per questo motivo non si era mai fatto una famiglia sua laggiù. Era sicuro che, frequentando una donna del posto, in seguito l'avrebbe sposata e presumibilmente avrebbe avuto dei figli e con essi avrebbe messo definitivamente radice in quella terra che, sia pur amica ed ospitale, non sentiva come la sua destinazione definitiva.

A un certo punto del suo racconto, che procedeva più per associazione d'idee che in maniera sistematica, ho voluto chiedergli come avesse fatto a capire che era giunto il momento di tornare. Mi disse che il tempo propizio si era manifestato all'incirca otto mesi dopo che il suo socio in affari si era sposato. Da quel momento, pur continuando a lavorare insieme e condividere spesso con immutata fraterna amicizia i pasti che la moglie dell'amico preparava per entrambi, con franchezza papà disse loro che presto essi avrebbero avuto dei figli ed era giusto che lui si facesse da parte e concretizzasse così il suo proposito di rientrare.

Gli chiesi se nell'approssimarsi della data della partenza avesse provato sentimenti di nostalgia e dispiacere di lasciare la vasta comunità di amici italiani, tutti immigrati come lui. "Niente affatto", mi rispose, ed aggiunse che fu colto da entusiasmo tale da non veder l'ora di arrivare. Ma la nave che partiva da Sidney sul finire dell'anno 1960 ci mise quasi un mese prima di giungere a destinazione. Si era imbarcato da solo, però a bordo aveva fatto amicizia con alcuni tagliatori di canna friulani, che in meno anni di lui avevano accantonato una discreta fortuna ed ora tornavano anch'essi alla loro terra d'origine.

Ricordo ancora l'espressione del suo volto felice attorniato da questi amici in alcune fotografie scattate ad Hong Kong o altri porti dell'Asia durante le varie tappe intermedie del lungo viaggio di rientro. Papà mi disse poi che in uno di questi scali, forse in India, aveva avuto modo di scrivere una cartolina ai genitori per far sapere in anticipo la data presunta del suo arrivo. Giunto però nei pressi del Mar Rosso cominciò a soffrire per un terribile mal di denti. Non vedeva l'ora di scendere a terra per sottoporsi alle cure di un dentista.

Attraccato a Napoli, visto che la nave avrebbe sostato per diverse ore, si fece portare con un taxi dal più vicino odontoiatra. Dopo un lungo girovagare per le vie della città arrivò a destinazione. L'autista gli chiese se avrebbe dovuto aspettarlo per il ritorno. Ma mio padre, vedendo dall'alto che il luogo in cui si trovava non distava più di trecento metri dal porto, rifiutò con decisione l'offerta, dicendo che sarebbe tornato a piedi.

Pensò che ormai era pieno inverno e al suo paese avrebbe patito molto freddo. Pertanto acquistò per diciottomila lire un ottimo cappotto, che poi nei mesi successivi gli fu chiesto in prestito dal cugino per ben figurare al matrimonio di un parente.

Il viaggio via mare si concluse a Genova. Uno degli amici conosciuti sulla nave tornava in Svezia con lo stesso mezzo. Mio padre e i friulani proseguirono invece in treno. Inizialmente temettero di non riuscire a partire in giornata perché al valico aveva nevicato abbondantemente e forse la corsa sarebbe stata soppressa oppure ritardata. Dopo un po' d'attesa ricevettero l'annuncio che il convoglio si sarebbe mosso ed i trenta centimetri di neve che incontrarono poi lungo il tragitto non crearono problema alcuno.

Giunti a Milano, cambiarono in direzione di Brescia, dove mio padre scese congedandosi dagli altri e consigliandoli di investire i guadagni in qualche attività produttiva. Ma essi gli risposero che sarebbero tornati a pascolare le capre come un tempo. Papà usci dalla stazione che erano ormai le nove di sera. Riuscì a trovare un taxi che lo portò subito fin su in montagna al paese natio. Pensò che avrebbe potuto fermarsi in città e dormire presso alcuni parenti, ma aveva troppa smania di giungere a casa ancora il giorno stesso. Quindi si mise nuovamente in cammino.

Arrivato a Belprato, il paesino prima del suo amato Livemmo, si accorse, nel tenue chiarore di qualche lampione, che non c'era neve a quella quota e quindi probabilmente non ne avrebbe trovata neanche più avanti. In un'ora circa mio padre era ormai giunto a destinazione e le seimila lire spese per il trasporto non mi son parte una cifra così esorbitante, specialmente se paragonate ai circa quindi euro da me spesi per farci trasportare all'hotel Industria, base di partenza per il nostro noto viaggio a Lourdes.

Giunto con le due valigie in mano sotto casa, papà pronunciò a voce alta il cognome della sua famiglia per chiedere se i suoi c'erano. Fu accolto dalla madre. Suo padre invece era al fienile con le bestie e papà lo rivide soltanto il mattino seguente. Notò il fisico ricurvo del genitore e gli parve più vecchio rispetto ai cinquantotto anni che aveva. Mio nonno gli disse che ora che lui era tornato non gli sarebbe dispiaciuto neppure di morire.

Queste sono le mie radici e gli eventi da cui provengo. Il racconto di questo ritorno dall'Australia mi ha emozionato ed entusiasmato come non riuscivano a fare i fantasiosi racconti di papà di quando s'imbatteva in serpenti velenosi, koala ed iguane.

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