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sabato 3 febbraio 2007

L'intervista


Marta è un'amica di Maria Luisa ed ora è anche amica mia. Recentemente ha rilasciato un'intervista ad una radio locale della sua città. Ho letto il testo dell'intervista e l'ho molto apprezzato. Volentieri lo ospito riportandolo di seguito.


Domanda: Di che cosa deve essere capace una famiglia che è chiamata ad accogliere la nascita di un figlio disabile?

Risposta: Passato il primo e umano disorientamento che fa dire “Perché proprio a me”, i genitori devono cercare di non sentirsi colpevolizzati per quanto è successo al loro bambino e quindi non considerarsi genitori di serie B. Al contrario dovrebbero pensare, anche se questo procedimento mentale implica e richiede un retroterra di fede: ”il Signore si particolarmente fidato di me perché mi ha affidato questa creatura del tutto speciale”. Da qui parte e si sviluppa l’accettazione, che non è un procedimento semplice perché non ci si accetta una volta sola, per sempre, ma tutti i giorni, vivendo e affrontando con sereno coraggio le non poche difficoltà che comporta il vivere con un figlio disabile.

Domanda: Anche la scuola deve essere un ambiente di accoglienza?

Risposta: La scuola ha aperto ufficialmente le porte ai disabili nell’ormai lontano 1971. Una rivoluzione più che copernicana perché ha dato la possibilità ai bambini diversi di non stare più nascosti, ma di uscire, di socializzare con i propri coetanei, di imparare. In una parola sola di normalizzarsi.
Questa normalizzazione deve costantemente progredire, migliorare...
C’è però anche il rovescio della medaglia. L’inserimento dell’alunno disabile non deve essere assolutamente strumentalizzato. Non deve esserci per creare nuovi posti di lavoro. L’insegnante di sostegno non si può improvvisare. Deve essere una persona veramente valida e capace. Altrimenti la scuola si riduce ad un parcheggio. Certo servono anche i parcheggi, ma non sono più scuola.


Domanda: Lavoro. La nostra è una società che offre giusti spazi in questo ambito?

Risposta: Purtroppo no. Si dovrà faticare ancora molto per ottenere un giusto ed equo inserimento. Attualmente la situazione è decisamente critica. Riesce preferibilmente ad avere un posto di lavoro chi è lievemente disabile o chi diviene disabile in un secondo tempo e con molta fatica riesce a mantenere il posto di quando non era ancora svantaggiato. Scoperta e maggiormente penalizzata resta la fascia, per altro molto numerosa, di quelle persone nate o cresciute con una disabilità importante. Perché la loro situazione lavorativa possa mutare in modo significativo è necessario un cambiamento radicale di mentalità. Si deve smettere di pensare che il disabile è meglio che stia a casa sua con la pensione. Si deve capire la validità assoluta del lavoro misto, costituito dall’insieme di persone normodotate e diversamente abili. E’ un arricchimento prezioso per entrambi. Per il soggetto disabile che smette di sentirsi solo ed esclusivamente oggetto di assistenza e può con soddisfazione, servirsi, mettere in campo, le capacità residue. Per la persona normale sarebbe un’ottima occasione, invece, per perdere in arrivismo e guadagnare in umanità. Se emergesse e si facesse strada questa logica di pensiero verrebbe conseguente una rivoluzione nei trasporti per maggior circolazione e traffico di persone sedute e di seguito a questa finirebbero anche di esistere le barriere architettoniche.

Domanda: Amici?

Risposta: Senza amici non potrei e non saprei vivere. Sono una parte essenziale di me.
Più delle mie braccia, più delle mie gambe. Senza di loro mi sentirei nuda. Senza contare che un’esistenza senza amici sarebbe molto più difficile da affrontare. Rischierei, con estrema facilità, di chiudermi in me stessa, vedendo soltanto il mio microcosmo, cosa questa veramente terribile: la patologia più seria e grave che possa colpire una persona disabile.

Domanda: Sì, abbattere le barriere archittettoniche è un procedimento essenziale, ma le barriere mentali non sono certo meno difficili da superare?

Risposta: Mi limito solo a sottolineare, visto la vastità dell’argomento, quanto sia sbagliata una società che ci voglia forzatamente tutti sani e belli.
La malattia, la diversità non è contemplata nei suoi canoni. Ma una società che non sa accogliere nel suo grembo la malattia, la diversità, è una società terribilmente sofferente.

Domanda: Davvero si può amare la vita stando in sedia a rotelle?

Risposta: Non vorrei scandalizzare, ma io che vivo da più di quaranta anni, da quando sono nata, con una tetraparesi spastico distonica per asfissia neonatale, una malattia da cui non si può guarire, perché il tessuto cerebrale è l’unico che non si rifà e pur non essendo questa una malattia a carattere progressivo è facilissimo peggiorare e perdere le capacità faticosamente acquisite
Perciò, non mi faccio illusioni. So che mi aspetta una strada in salita.
Un giorno, forse, la paralisi mi rinchiuderà completamente nella suo guscio. Ma adesso sono felice e sarò felice anche in futuro perché la felicità non è direttamente proporzionale alle capacità motorie.
E’un atteggiamento interiore.
Anzi, dico di più, mi sento una persona privilegiata perché sto in carrozzina.
E’ una condizione particolarmente favorevole per avvicinare e comprendere gli altri.
Perché andare verso gli altri è un movimento che si può compiere anche nella più completa e assoluta immobilità.

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